Sono andata io a comunicare la cosa alla direzione dove lavorava e l’ho fatto a sua insaputa, perché lui non voleva assolutamente che dicessi quale fosse la verità. Ho parlato con il direttore, gli ho detto: “La patologia è questa potrà avere dei peggioramenti a breve come a lungo termine; non possiamo sapere l’evoluzione, dipende dalla alterazione genetica che ha”. E il direttore mi ha risposto: “Non si preoccupi: suo marito resta in reparto – lui lavorava in una unità operativa – verrà affiancato da un collega” che è anche un suo amico. Lo ha affiancato circa due anni. Ovviamente mio marito non aveva più responsabilità dirette, ma non era positivo toglierlo dal reparto, perché sarebbe andato in depressione. L’hanno aiutato sostenendolo in questo passaggio e dopo due anni gli hanno proposto un lavoro d’ufficio, siccome lui aveva un diploma di ragioniere.; magari un lavoro meno faticoso, con più tempo seduto alla scrivania: non era un lavoro di responsabilità quello che doveva fare, non doveva mettere giù bilanci, ma un lavoro più di segreteria. Lui ha accettato e ha detto: “Adesso io so che sono veramente peggiorato e da domani non vado più al lavoro”. Io l’ho comunicato loro; per cui la scelta di stare a casa non è stata una scelta, come per altre famiglie, obbligata: non ti hanno licenziato loro; sono venuti incontro a tutti gli aspetti del suo peggiorare lentamente, fino al momento in cui lui ha deciso.
Tratto da “I RACCONTI DELL’HUNTINGTON. Voci per non perdersi nel bosco“.
Un libro che mette in luce i problemi legati alla progressiva perdita di autonomia nella gestione della quotidianità e del mondo del lavoro: i cambiamenti che l’Huntington porta all’interno della famiglia investono la vita relazionale e sociale del malato quanto quella del caregiver familiare, che deve riuscire a conciliare la propria vita con le esigenze di cura.
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