Riportiamo di seguito l’articolo, pubblicato sul sito “Sociologia della Salute – Analisi e proposte della Società Italiana di Sociologia della Salute”, riguardante i risultati della ricerca sulla Malattia di Huntington finanziata dalla Fondazione Comunitaria Nord Milano e realizzata dall’Osservatorio e Metodi per la Salute (OsMeSa) del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università Milano Bicocca in collaborazione con AICH Milano Onlus, finalizzata ad esplorare da un lato, le esigenze e le principali difficoltà affrontate dalle famiglie nella cura della persona con Malattia di Huntington, dall’altro le esperienze e i vissuti degli operatori sanitari e socio sanitari che l’hanno assistita.
LA COMUNITA’ SI PRENDE CURA DELLA MALATTIA DI HUNTINGTON
Premessa
La Malattia di Huntington (MdH) è una malattia genetica neurodegenerativa ad oggi incurabile che può essere ereditata dalla prole con una probabilità del 50%. Nonostante sia annoverata tra le malattie rare, i casi di persone malate, con sintomatologia evidente, sarebbero destinati a crescere (Rawlins, 2010). Per tale ragione, e per il fatto che non è ancora disponibile alcun tipo di terapia che ne rallenti o arresti la progressione, è importante sia continuare a ricercare una cura efficace sia individuare modalità per fornire, fin da subito, supporto a coloro che si trovano ad affrontare, in prima persona, questo carico: il malato e la famiglia. Più di altre malattie cronico-degenerative, infatti, la MdH colpisce il nucleo familiare in tutti i suoi componenti. L’ereditarietà e la precoce età d’insorgenza (mediamente tra i 35 e i 45 anni) rendono fortemente probabile l’emergere di nuovi casi nelle generazioni future (Tognetti & Omodei, 2012).
Tali caratteri rendono poi particolarmente critica l’assunzione del ruolo di malato da parte del singolo e parallelamente l’accettazione da parte della famiglia di questa nuova situazione.
Per usare un concetto caro alla sociologia della salute (Durkheim, 1969) la diagnosi di MdH costituisce un fatto sociale totale che richiede un riposizionamento completo da parte del soggetto interessato da tale evento, e da parte del nucleo familiare nel suo complesso. Ciò diventa ancora più rilevante in presenza di prole poiché essa ha una probabilità elevata (50%) di essere portatrice di tale malattia degenerativa. Il tutto è ulteriormente aggravato dal fatto che la MdH insorge in età giovane (già a 35 anni di età).
Caratteri della MdH (insorgenza in giovane età, degenerazione sia sul piano fisico che psichico e mentale) che assumono rilevanza anche nel momento della presa in carico da parte degli operatori preposti alla cura e al trattamento.
In particolare l’insorgenza in giovane età, la scarsa conoscenza dell’esistenza della malattia, nonché il tipo di evoluzione e il suo impatto sull’autonomia del paziente (degenerazione psicomotoria e mentale) determinano nell’operatore sanitario e sociale uno spaesamento e un sentimento di inadeguatezza nella presa in carico, una sensazione di non essere all’altezza sul piano professionale.
Sulla base di queste esigenze si è deciso di procedere con una ricerca esplorativa che consentisse di cominciare a ragionare su come operare in presenza di questa patologia, e su come sostenere i famigliari in questo loro nuovo ruolo, oltre che il singolo paziente.
La metodologia della ricerca e il contesto dell’indagine.
Lo studio, di carattere quali-quantitativo, ha coinvolto quindici famiglie di persone con MdH residenti nei Comuni della zona a nord del Comune di Milano (Bollatese, Sestese, Rhodense).
La raccolta dati è stata realizzata attraverso un questionario semi strutturato, predisposto appositamente, rivolto alle famiglie dei malati. La compilazione del medesimo era richiesta per colei o colui che si faceva carico delle cura del malato per il tempo prevalente.
Il questionario, formato da quarantasette domande sia a risposta chiusa sia a risposta aperta, era finalizzato ad esplorare le seguenti tematiche: la storia clinica del MdH, la diagnosi, l’ereditarietà, i servizi sanitari e socio assistenziali, il caregiver, i bisogni dei familiari.
Quattro interviste discorsive hanno poi consentito di approfondire il tema dei servizi sanitari e socio assistenziali raccogliendo il punto di vista degli operatori che hanno lavorato con persone malate di Huntington. Le interviste, della durata di circa quaranta minuti, sono avvenute in modalità faccia a faccia (2 interviste) e telefonica (2 interviste).
Nel percorso di ricerca sono stati coinvolti quattro differenti servizi frequentati da persone con MdH: di questi, tre sono strutture a carattere residenziale o semiresidenziale; il quarto, invece, è un servizio sanitario specialistico (neurologia).
Sono stati intervistati poi alcuni professionisti:
- un educatore professionale di una Residenza Sanitario-Assistenziale per persone con disabilità;
- uno psicologo, coordinatore di un Centro Diurno Sperimentale;
- un coordinatore di un Centro Diurno Integrato;
- un medico neurologo;
La ricerca è iniziata nell’ottobre 2012 e si è conclusa nell’ottobre 2013 con una restituzione dei primi risultati l’8 novembre 2013, nel corso di un convegno pubblico, presso la RSA Residenza del Sole (Cinisello Balsamo), ai soggetti coinvolti nella rilevazione, ai cittadini e agli amministratori dei Comuni della zona a nord di Milano.
Conclusioni
In generale, i bisogni dei familiari sono una conseguenza delle difficoltà percepite nella gestione del malato e si modificano con il progredire della malattia.
In un primo momento i familiari sperimentano esigenze conoscitive, dopo una fase iniziale di vero e proprio spaesamento, nei confronti della malattia, per comprenderne a pieno i sintomi, le evoluzioni e le ricadute e, nel contempo, per prefigurare azioni di organizzazione e riorganizzazione familiare. Se le prime informazioni sulla malattia vengono comunicate al momento della diagnosi (Pellegrino, 2009), la conoscenza delle reali implicazioni avviene tramite l’esperienza di familiari e amici, per informazioni ricevute da associazioni dedicate (AICH Milano Onlus) e per aver ricercato personalmente informazioni (Vamos et al., 2007).
Manifestandosi nel pieno del ciclo di vita familiare, la MdH mette a dura prova il sistema di relazioni familiari (Aubeeluck et al., 2011), stravolgendone gli equilibri e, spesso, imponendo una completa riorganizzazione della famiglia. Le persone che si prendono cura di una persona con MdH sperimentano situazioni di forte stress emotivo (Williams et al., 2009) legate al fatto di dover conciliare molteplici ruoli (carer, lavoratore, partner, genitore, nonno, ecc.) e di vivere una fase della vita diversa da quella attesa (maggior indipendenza economica, possibilità di carriera, minor dipendenza e preoccupazione per i figli) (Korer, 1985).
Il conciliare l’attività lavorativa con l’assistenza alla persona malata e la cura degli altri familiari comporta rinunce generalizzate: dagli aspetti più semplici della vita quotidiana, chi assiste un familiare con MdH rinuncia prima di tutto al tempo per sé per dedicarsi alla persona malata. Inoltre, tendono a deteriorarsi i rapporti con gli altri sia all’intero sia all’esterno della famiglia, e manca il tempo di ricoprire ruoli e attività sociali importanti per la propria vita.
Per questo, oltre a un aiuto più assistenziale, i familiari esprimono la necessità di ottenere un accompagnamento psicologico, rivolto al singolo familiare o nella forma del gruppo di Auto Mutuo Aiuto (Tognetti Bordogna, 2005), che rappresenterebbe uno spazio di rielaborazione, di confronto e di scambio in cui i familiari potrebbero ricevere conforto, essere ascoltati e rassicurati rispetto, ad esempio, alla difficile relazione e convivenza con il proprio caro nonché ottenere indicazioni utili al fine di migliorarne la gestione quotidiana.
In estrema sintesi, nei nuclei familiari in cui vi è una persona con MdH vi è la necessità di:
- ottenere supporto psicologico al fine elaborare ed affrontare la complessità della situazione familiare e per posizionare i ruoli familiari che la diagnosi di MdH ha alterato;
- ricevere supporto organizzativo (domestico e/o assistenziale);
- apprendere indicazioni utili alla gestione quotidiana del malato;
- usufruire di servizi riabilitativi a domicilio;
- conoscere i servizi che hanno preso in carico persone con MdH;
- confrontarsi con familiari nelle medesime condizioni per scambiarsi informazioni circa le implicazioni cliniche, emotive e relazionali della MdH.
Per quanto riguarda, invece, il punto di vista degli operatori che hanno assistito persone con MdH, dalla ricerca emerge una visione stereotipata del malato, che viene percepito dai soggetti intervistati come atipico, rispetto al contesto del servizio offerto, per età mentale, età anagrafica, grado di personalizzazione delle cure e tipologia di disabilità.
Questo implica che non si trovi nei servizi presenti sul territorio un’offerta che vada incontro alla complessità della situazione clinica e familiare di questi soggetti. Le persone malate di Huntington e i loro familiari portano, infatti, nel rapporto con i servizi tutte le complessità, le criticità, i timori e le sofferenze che caratterizzano la loro storia familiare di malattia e di accudimento. Ad esempio, a volte, i familiari incontrano resistenze nel cedere i propri cari alle cure degli operatori. L’inserimento del proprio caro in una struttura rappresenta un delicato momento di transizione durante il quale si prende coscienza della progressione della malattia, della difficoltà di affrontarla senza aiuti esterni, dell’inevitabilità del distacco.
Infine, gli operatori, che vengono a conoscenza di questa malattia e dei suoi risvolti degenerativi al momento della richiesta di presa in carico, tendono a sperimentare un senso di spiazzamento, anche perché spesso si tratta del primo caso.
Nonostante siano messe in campo strategie per fronteggiare il senso di inadeguatezza e i timori legati alla complessità della situazione, essi ribadiscono l’esigenza di una adeguata formazione e di spazi per rielaborare l’esperienza con la persona malata e la sua famiglia.
Gli apprendimenti derivanti dal lavoro sul campo di operatori e familiari sono un patrimonio da valorizzare e condividere con i servizi della rete. Le buone prassi possono costituire un punto di partenza utile a coloro che si accingono alla prima presa in carico di una persona con MdH.
L’assenza di una rete di servizi sul territorio a supporto di questi malati e delle loro famiglie implica che siano i servizi specialistici a raccogliere le reali esigenze e le principali difficoltà e a diventare l’unico punto di riferimento anche per questioni di tipo informativo e burocratico che non sarebbero di loro stretta competenza. Oppure in alternativa le Associazioni dei malati di Huntington.
Per quanto riguarda le esigenze professionali gli operatori dei servizi esprimono l’esigenza di:
- essere formati sulla MdH da un punto di vista clinico;
- ricevere informazioni sulle attività più idonee da proporre ai MdH;
- ottenere indicazioni sulla gestione dei rapporti con le famiglie dei malati;
- avere a disposizione spazi di confronto e di rielaborazione delle esperienze professionali;
- costruire e condividere buone prassi sulla gestione del malato di Huntington, con altri operatori e con differenti figure professionali.
Emerge poi che per far sì che la comunità si prenda cura delle persone con MdH, diventi fondamentale promuovere spazi di collaborazione e confronto tra tutti i soggetti della rete (familiari, medici di medicina generale, specialisti, operatori dei servizi sociali, terapisti della riabilitazione, psicologi, operatori e coordinatori di strutture residenziali e semiresidenziali, associazioni).
Mara Tognetti, Anna Omodei – Osservatorio e Metodi per la Salute
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università Milano Bicocca
Fonte: “La comunità si prende cura della Malattia di Huntington” in Sociologia della Salute