L’Huntington è una maschera, una maschera dietro la quale la persona viene involontariamente nascosta, e di fronte a cui il familiare o il caregiver spesso si ferma, in difficoltà, inizialmente incapace di decifrare volontà e stati d’animo.
E’ questa la metafora che Jimmy Pollard – grande esperto nel campo della riabilitazione neuropsicologica per questa patologia – ha utilizzato per raccontare la malattia nel corso dell’evento formativo del 4 dicembre “Vivere e comunicare con l’Huntington”.
Pollard, a Milano per l’unica tappa italiana del suo tour, ha descritto i cambiamenti fisici, cognitivi e di personalità che affrontano i malati di Huntington come un insieme di elementi che concorrono alla formazione di una maschera che occulta, confonde e disorienta, soprattutto nella relazione con l’altro.
L’impersistenza motoria, ad esempio, impedisce al malato di Huntington di trasmettere le sue emozioni attraverso la mimica facciale; il viso appare sempre spento e l’espressione piatta, tanto che anche di fronte ad una profonda contentezza può essere difficile regalare o regalarsi un sorriso.
La postura cambia a causa della malattia e anche il linguaggio del corpo non è più attendibile.
L’equilibrio è sempre più instabile e dosare la forza potrebbe essere un problema.
Prendersi cura di una persona malata di Huntington, personalmente o professionalmente, significa andare oltre la maschera; un cambio di paradigma sicuramente non facile, ma certamente indispensabile.
Siamo abituati a decifrare un gesto violento come un’espressione di rabbia, disaccordo, come una mancanza di rispetto, ma per un malato di Huntington potrebbe non essere così; in quel momento il suo sistema nervoso centrale potrebbe non essere stato in grado di dosare la forza necessaria al movimento da compiere, e ogni altra interpretazione da parte nostra ci potrebbe portare fuori strada, in un circolo vizioso di reazioni non volute e intenzioni mal interpretate.
La comprensione ci aiuterà ad andare oltre la maschera, a capire perché le persone con MH sembrano sempre darci messaggi contrastanti come “sbrigati e aspetta”, due concetti apparentemente opposti ma entrambi così contemporaneamente presenti.
L’Huntington rallenta il pensiero, dilatando i tempi di interazione. Ad una nostra domanda corrisponderà un tempo di risposta necessariamente più lungo, al quale però dovrà seguire un nostro feedback immediato.
Per quanto possa sembrare un paradosso la persona malata di Huntington ha bisogno di tempo, ma non può concederne. Sbrigati e aspetta, appunto, come dice Jimmy Pollard sin dal titolo del suo libro (Hurry up and wait! A cognitive care companion. Huntington’s Disease in the Middle and More Advanced Years).
Prendersi cura di una persona che ha l’Huntington non è facile, e non esiste una formula magica, veloce e uguale per tutti, che ci metta al riparo da ogni possibile sbaglio. La strada è in salita, ma sarà durante il cammino che troveremo gli strumenti giusti per affrontarla; insieme all’esperienza acquisiremo la sicurezza.
“Prendersi cura di una persona malata di Huntington è un profondo atto d’amore.” – Jimmy Pollard
Da sinistra: Claudio Mustacchi – Presidente AICH Milano Onlus e fondatore di Huntington Onlus; Dominga Paridi – Psicologa di AICH Milano Onlus ed esperta gruppi AMA; Jimmy Pollard – Educatore e oggi consulente della Fondazione CHDI, Chiara Laratta – Assistente Sociale di AICH Milano Onlus, Chiara Zuccato – Dipartimento Bioscienze Università degli Studi di Milano.